LIBRI / "La misura mediterranea dell'umano", di Claudio Monge e Giuseppina de Simone
Il Mediterraneo, da secoli punto d’incontro tra genti, tradizioni e ideali, è il cuore da cui sono nate la cultura, la storia e l’identità unitarie che ancora oggi riconosciamo come parte fondante di noi. Il ricordo della sua antica prosperità è oggi destinato a estinguersi, a svilirsi? Claudio Monge e Giuseppina De Simone, in "La misura mediterranea dell'umano" (Castelvecchi 2024, pp. 86. euro 13.00), affermano il bisogno di tutelare la diversità, che da sempre arricchisce questo crocevia di culture, attraverso una nuova proposta teologica.
Insieme, riabilitano la “memoria” del Mediterraneo non solo in relazione al suo ricco passato, ma scegliendo di orientarla alla pratica, alla trasformazione della realtà personale e sociale. Accentuando in questo modo la funzione critica della teologia, la pongono al servizio dell’umano, pur in costante dialogo con l’epifania del divino. Così, l’antico Mare nostrum da “confine” ridiventa “soglia”, il cui attraversamento ci rende altri.
Claudio Monge, frate domenicano, è direttore del Centro Studi DoSt-I (Dominicans Study Institute) di Istanbul. Si è addottorato in Teologia fondamentale, specialità Teologia delle religioni, all’Università di Strasburgo, dove ha conseguito anche un master in Lingua e cultura turco-ottomana. È professore di Teologia fondamentale e saggista. Nel 2014 è stato nominato da Papa Francesco consultore del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso.
Giuseppina de Simone, docente di Filosofia della religione e di Teologia fondamentale nella Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, sezione San Luigi, coordina nella stessa facoltà la specializzazione in Teologia fondamentale “Teologia dell’esperienza religiosa nel contesto del Mediterraneo”. I suoi interessi di ricerca si situano tra filosofia e teologia, con particolare interesse per l’esperienza religiosa.
Il Mar Mediterraneo, striato di sangue, torni ad essere grembo di umanità e fraternità
Sui temi del volume, riproponiamo la riflessione di padre Monge, pubblicata un mese fa da Famiglia Cristiana in occasione della partecipazione del frate domenicano a Palermo alla Rete teologica Mediterranea, laboratorio internazionale per rianimare la vocazione del Mare Nostrum all’incontro e alla costruzione della pace.
Può il Mediterraneo, teatro di conflitti e di naufragi, tornare ad essere grembo, diventare lo spazio di un umanesimo rigenerato e di una fraternità universale? Quale misura dell’umano racconta questo mare? Due domande tra le tante che ci si può porre guardando al presente di quello che è stato definito, in tempi recenti, un grande cimitero a cielo aperto, in cui i naufraghi non hanno avuto spesso né il diritto di una degna sepoltura né, talvolta, neppure l’accostamento di un nome e quindi di una storia, da ricordare, da piangere, da tramandare…
È proprio nella ferma convinzione che il Mediterraneo non possa essere semplicemente derubricato come luogo di una tragedia immane, né essere archiviato come epicentro geografico di una storia illustre, in parte mitica, ma esclusivo patrimonio della memoria e soggetto riservato agli specialisti della storia, che delle teologhe e dei teologi attivi in diversi centri universitari e culturali, distribuiti sulle cinque rive del “Mare Nostrum”, hanno deciso da alcuni anni di orientare e coordinare le loro ricerche per una teologia che sgorghi da questo crocevia del mondo.
Questo crogiuolo di civiltà che ha dato origine a tradizioni, filosofie e religioni, che a loro volta hanno plasmato il mondo moderno, non può essere diventato improvvisamente sterile! Là dove gli scambi tra i popoli, il commercio e le migrazioni hanno creato spazi unici di interazione e fecondazione reciproca, deve in qualche modo rinnovarsi anche una visione dell’umano, che oggi non può che respirare attraverso il mosaico di società, culture, lingue e costumi delle cinque sponde che si affacciano su quello che Giorgio La Pira, padre costituente, originario di Pozzallo, definì il nuovo Lago di Tiberiade.
Le teologie non possono certo essere estranee a questa riflessione. In primis quella cristiana, legata in modo indissolubile all’evento dell’Incarnazione, che passa al vaglio il concetto di cultura, da intendersi prima di tutto come vera mediazione tra la particolarità degli individui e l’universalità del Bene comune, tra nazione al singolare e umanità plurale, contestando la stessa riduzione della dimensione religiosa a mero fatto identitario discriminante, tradimento della vocazione mediterranea originaria che era spazio della mediazione e dell’incontro e luogo di relazioni vitali.
Ora, com’è possibile, nelle condizioni attuali, preservare una grammatica dell’umano che favorisca il dialogo fra le differenze? Fare teologia a partire da questa domanda significa, prima di tutto, considerare il fatto che l’esilio, almeno apparente, a cui essa è condannata nelle società post-moderne è, forse, paradossalmente, salutare perché la costringe a non pretendere di avere un posto privilegiato o eccezionale, ma la incoraggia a cercare un posto originale, a lasciare la propria torre d’avorio per offrire quell’ineludibile filo rosso di senso, così essenziale al cuore dell’estrema frammentazione dei saperi moderni!
È un’esigenza, questa, che è diventata programmatica, a partire dal discorso di papa Francesco in chiusura del convegno del 2019, tenutosi alla Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale di Napoli su "La Teologia dopo Veritatis gaudium nel contesto del Mediterraneo". In quell’occasione il Papa lanciò un forte appello per una teologia dell’accoglienza basata sul dialogo e sull’annuncio, per contribuire a costruire una società fraterna fra i popoli del Mediterraneo.
Alcune istituzioni teologiche, tra cui l’Institut Catholique de la Méditerranée, voluto dal futuro cardinale di Marsiglia, Jean-Marc Aveline, hanno raccolto la sfida ponendosi l’obiettivo di creare legami con istituzioni universitarie e teologi del Mediterraneo per lavorare su una teologia del dialogo, che deve essere interdisciplinare e transdisciplinare.
Quasi cinque anni di incontri, in parte in presenza e in parte anche a distanza, attraversando tra l’altro la crisi globale della pandemia, hanno portato alla redazione di un Manifesto per una teologia dal Mediterraneo, consegnato proprio a papa Francesco in occasione delle Journées Méditerranéennes di Marsiglia, nel settembre 2023, ma anche alla costituzione di una Rete teologica Mediterranea.
Ora, in questi giorni, una nuova tappa di questo cammino è organizzata dalla Facoltà di Teologia di Palermo: un convegno internazionale che ha come compito principale proprio quello di dare un volto statutario alla rete di centri culturali e facoltà teologiche coinvolte nella implementazione del Manifesto.
Le tre giornate, dal 24 al 26 giugno, vogliono essere un momento privilegiato di “teologia pubblica”, perché capace di profezia, in quanto aderente al reale e vicina alla gente. Una teologia tormentata dalla necessità ineludibile di aprire vie di ascolto reciproco, premessa per l’apertura di sentieri indispensabili di pace. Il riferimento al Mediterraneo come indiscutibile spartiacque tra Sud e Nord del mondo, rimanda, per analogia, «alla sconcertata constatazione evangelica di una messianicità che viene dalla Galilea delle genti, contro ogni attesa consolidata che guardava piuttosto alla città santa di Gerusalemme e alla Giudea, patria della stirpe regale davidica. Oggi si tratta di guardare alla dimensione rivelativa di persone povere, poverissime, che bussano alle nostre porte e ci invitano a riconvertire il nostro modo di agire e di pensare » (C. Monge - G. De Simone, La misura mediterranea dell'umano, Castelvecchi, 2024, 73).
Questo significa, tra l’altro, accogliere la sfida di smetterla di difendere bastioni ideologici di retroguardia per rimettere al centro il valore primario della persona umana e della sua inviolabile dignità, la cui sacralità è squarcio sul divino.
[Photo Credits: Castelvecchi]