L'INTERVENTO / "Bettazzi a un anno dalla morte: un padre del Concilio e un costruttore di pace"

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Di Tonio Dell'Olio, presidente della Pro Civitate Christiana di Assisi (da Vita Pastorale)

Non è soltanto per un moto affettivo che molti di coloro che hanno frequentato in vita monsignor Bettazzi non si rassegnavano al fatto che potesse lasciarci. Era piuttosto per quella sua naturale apertura al domani che non lo faceva mai camminare retrovolto. Il vescovo Luigi era prodigo sì di aneddoti, citazioni e ricordi, ma mai dal sapore nostalgico e tipico di chi si abbandona alla memoria dei bei tempi andati. La memoria in lui aveva semmai la funzione di illuminare il presente come un faro o di fornire linfa dalle radici ai nuovi rami che ostentano le gemme del futuro.

E quest’attitudine l’ha accompagnato sempre. Nell’ultima telefonata mi chiedeva se fossi stato disponibile a proporre al quindicinale Rocca di pubblicare una sua riflessione sullo status dell’embrione e semmai ad aprire una riflessione a più voci «sul tema dell’aborto». E lo chiedeva con la sapienza evangelica di chi ha il coraggio di osare, di sporgersi oltre i confini. E, soprattutto, di porre domande senza presumere certezze incrollabili e verità non negoziabili.

Un padre del Concilio. Anzi l’ultimo padre del Concilio che è finito per diventarne figlio, ovvero interprete autentico, attento allo spirito che aveva attraversato quella stagione feconda della Chiesa e non semplice scrupoloso osservante della lettera.

Per queste ragioni riteneva che, prima di proporre un nuovo Concilio, bisognava attrezzarsi ad applicare il secondo, ovvero ad accogliere lo spirito di un Concilio non dogmatico ma pastorale, aperto al nuovo e pronto a dialogare col mondo, senza usare la propria tradizione e il proprio patrimonio di fede come una clava ma piuttosto come una chiave per spalancare le porte verso i “lontani”. È per questo che scrive a Berlinguer prima e a Zaccagnini dopo, che non esita a dichiarare la propria disponibilità a sostituirsi ad Aldo Moro nelle mani dei terroristi e che dialoga con i rappresentanti del Vietnam e dei governi che hanno un conflitto in corso.

A don Tonino Bello lo legava una dolce amicizia fraterna e una stima profondissima; non esitava a segnalare in lui i tratti della profezia, al punto da affermare che «lui è il profeta e io piuttosto il patriarca». Sapeva che non era così e che, per quel profeta, costituiva un punto di riferimento saldo soprattutto per la riflessione sulla pace e la nonviolenza evangelica. Certo, avevano linguaggi e tratti molto diversi, perché diverso era anche il tratto di strada che li aveva condotti all’impegno in prima linea a favore della pace; diversa era anche la provenienza geografica che li aveva forgiati. Ma pochi sanno che le loro strade s’erano incrociate già a Bologna, quando don Tonino frequentava gli studi di teologia risiedendo all’Onarmo, il seminario che preparava i presbiteri cappellani del lavoro e Bettazzi insegnava filosofia.

In Pax Christi quelle due diversità si complementarono fornendo un servizio appassionato all’impegno dei cristiani per la pace. Tant’è che non esitarono a condividere l’azione di pace a Sarajevo del dicembre 1992 e a denunciare a testa alta il paradosso tragico della guerra. Di quella, come della prima guerra del Golfo. Quando le menzogne che le scatenarono vennero a galla, davano loro ragione, ma erano costate la vita a migliaia di persone e avevano finito per avvelenare i pozzi per chissà quanti altri anni ancora.

Conservo l’immagine viva e tenerissima, come una reliquia, degli ultimi giorni e degli ultimi istanti di vita di don Tonino con Bettazzi chino sul letto che gli sussurrava all’orecchio le litanie mariane tratte dagli scritti di don Tonino: «Maria donna del piano superiore, ora pro nobis; Donna che ben conosce la danza, donna del primo passo, donna dell’ultima ora, ora pro nobis». A quella sintonia tanto intima e profonda lo portava la comunione che nasce da una comune fede mai accomodante e sempre attenta al richiamo evangelico, ma c’era anche un ancoraggio alla nonviolenza evangelica alla quale sembrava avessero emesso voto sacramentale.

A unirli c’era anche l’incomprensione di tanti, anche confratelli vescovi, che sorridevano davanti a un preteso “fondamentalismo della pace” e all’“ingenuità di chi si presta a strumentalizzazioni politiche”. Insomma “vescovi rossi”. Non mancarono per loro i richiami d’autorità, ma proseguirono sereni e determinati a guidare il popolo della pace.

Bettazzi è famoso per la sua giovialità e condiva i suoi interventi con ironia intelligente e un invidiabile repertorio di barzellette. Una vivacità che lo rendeva unico. E anche tanto umano! Se mi chiamassero a testimoniare a suo favore, per prima cosa direi che, come Cristo, è stato innanzitutto uomo fino in fondo. Avendo avuto la grazia di condividere con lui ore e ore di viaggio in Vietnam, Australia, Israele-Palestina, El Salvador, Bosnia... so che anche nelle situazioni più improbabili non rinunciava mai alla celebrazione eucaristica quotidiana. La profonda spiritualità che l’animava e che era ispirata a Charles De Foucauld, ravvivava in lui il saper stare al mondo, osando sempre ardite incursioni nel futuro. Ed è proprio questo a farcelo sentire ancora vivo e presente.

[Photo Credits: Conferenza Episcopale Italiana]