L'INTERVENTO / Dopo la Settimana sociale di Trieste: il rapporto tra fede e impegno politico
Di p. Francesco Occhetta, sj (da Vita Pastorale di agosto-settembre)
Si è chiuso il sipario sulla 50ª Settimana sociale dei cattolici in Italia, che si è tenuta a Trieste dal 3 al 7 luglio, con circa 1.200 delegati provenienti da tutti gli angoli del Paese e i rappresentanti dei circa 100 stand di buone pratiche sparsi come una grande agorà greca nelle principali piazze della città. Il clima costruttivo e sereno, il dialogo e l’ascolto, ma anche il metodo sinodale dei lavori e la qualità delle relazioni proposte dal Comitato organizzatore presieduto da monsignor Luigi Renna ha riportato nel cuore della Chiesa il rapporto tra la fede e l’impegno politico e la riflessione sulla democrazia. In molti, però, è rimasta aperta una domanda: cosa è possibile fare adesso?
L’eredità ricevuta, a partire dall’impegno dei cattolici alla Costituente, ha fatto emergere la consapevolezza che vivere in una democrazia è un privilegio e una responsabilità. Per perderla basta poco: solamente il 7,8% della popolazione mondiale vive in Stati pienamente democratici; la maggioranza della popolazione, pari al 39,4%, vive sotto regimi autoritari; il 37,6% in democrazie imperfette; il 15,2% in regimi ibridi. I parametri che la definiscono sono quelli noti: riconoscimento delle libertà civili, partecipazione politica, indipendenza della magistratura, libertà di stampa, buon funzionamento del governo, una cultura politica diffusa, rispetto del pluralismo, riconoscimento delle minoranze. In Italia occorre fare meglio e di più. Il nostro Paese è stato infatti catalogato come una “democrazia imperfetta” dal Rapporto Democracy Index 2023 per non avere in regola alcune di queste voci.
Da Trieste sono emerse almeno tre parole: partecipazione, alfabetizzazione e “processo” politico. Anzitutto, il ritorno alla partecipazione, che non si limita al voto; purtroppo anche all’interno del mondo cattolico è forte l’astensionismo se si pensa che non vota un credente su due che partecipa alla messa domenicale. Il cardinale Matteo Zuppi ha ricordato che partecipare significa ritornare ad amare la democrazia e a difendere la dignità di tutti. È questa la vocazione “politica” della Chiesa che, come scriveva il teologo de Lubac, «presenta un carattere eminentemente sociale, che non si potrebbe misconoscere senza falsarla».
I discorsi del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella e di Francesco, il primo Papa a presenziare a una delle Settimane sociali, nate con Toniolo nel 1907, rimangono la “luce da collocare sopra il moggio”. Nella sua lectio, durata quasi 40 minuti, Mattarella ha toccato alcuni punti nevralgici per approfondire l’impegno dei cattolici in uno Stato democratico laico; il contributo del cattolicesimo democratico e di quello liberale nella società italiana; i riferimenti culturali della democrazia italiana nel pensiero di Tocqueville, Bobbio, Dossetti, monsignor Bernareggi, don Milani, Gonella e De Gasperi; i princìpi della Costituzione come bussola del cammino democratico; i limiti del potere politico in una democrazia.
La pace e i diritti indicano la salute della democrazia; l’abuso dei poteri delle maggioranze di governo e le disuguaglianze sono, invece, i principali mali: «Ogni generazione, ogni epoca, è attesa alla prova della “alfabetizzazione”, dell’inveramento della vita della democrazia. Prova, oggi, più complessa che mai, nella società tecnologica contemporanea. Ebbene, battersi affinché non vi possano essere più “analfabeti di democrazia” è causa primaria e nobile, che ci riguarda tutti. Non soltanto chi riveste responsabilità o eserciti potere. Per definizione, democrazia è esercizio dal basso, legato alla vita di comunità, perché democrazia è camminare insieme». Alfabetizzare la democrazia è la seconda parola consegnata dal Presidente ai delegati: la democrazia è anzitutto cultura, un modo di stare nel mondo; è pensare democraticamente e testimoniare scelte e comportamenti democratici; è costruire un “noi sociale” in cui si includono i progetti individuali e privati. Ma c’è di più: la democrazia nell’esperienza del cattolicesimo è anzitutto sostanza, prima di essere procedura. Se non fosse così non si avrebbe l’istruzione gratuita, la possibilità di curarsi, un sistema pensionistico universale e così via.
A fondamento del discorso del Presidente si trova incastonata come una perla la posizione di Tosato, uno dei costituenti cattolici che nella Settimana sociale di Firenze (1945), quando «contestò l’assunto di Rousseau, in base al quale la volontà generale non poteva trovare limiti di alcun genere nelle leggi, perché la volontà popolare poteva cambiare qualunque norma o regola. Lo fece Tosato con parole molto nette: “Noi sappiamo tutti ormai che la presunta volontà generale non è in realtà che la volontà di una maggioranza e che la volontà di una maggioranza, che si considera come rappresentativa della volontà di tutto il popolo può essere, come spesso s’è dimostrata, più ingiusta e oppressiva che non la volontà di un principe”. Esprimeva un fermo no, quindi, all’assolutismo di Stato, a un’autorità senza limite, potenzialmente prevaricatrice».
In una democrazia lo Stato non si impone mai. Anzi, è chiamato a promuovere, accompagnare e rimuovere gli ostacoli all’iniziativa delle persone e della società, è sempre un mezzo mai un fine. Viene citato anche Bobbio che da liberale s’è battuto per il rispetto delle regole del gioco e i limiti delle decisioni di chi decide.
La terza parola l’ha consegnata il Papa che ha chiesto di essere voce che denuncia e ricostruisce. Ha invitato a costruire processi senza occupare spazi; questo modo si stare nello spazio pubblico «non si improvvisa: si impara da ragazzi, da giovani, e va allenato, anche al senso critico rispetto alle tentazioni ideologiche e populistiche». È vero, i giovani camminano più veloci degli anziani, ma gli anziani conoscono la strada, solo insieme possono curare la democrazia, superare l’indifferenza, e dialogare invece di ridursi a fare il tifo. Poi cita Moro per ricordare la centralità della persona umana e gli enti intermedi che la garantiscono, e La Pira per invitare a gettare ponti e non a erigere muri. Ai politici ricorda di stare «davanti al popolo per segnalare un po’ il cammino, in mezzo al popolo, per avere il fiuto del popolo, dietro al popolo per aiutare i ritardatari».
A Trieste è stato pensato il futuro con la “memoria”, non con la “nostalgia” dei tempi ormai passati. È stato quello di incontrarsi e riconoscersi per costruire “amicizia sociale” per democratizzare i molteplici ambiti sociali come il lavoro e lo studio, il volontariato e l’associazionismo, l’impegno amministrativo e la responsabilità politica.
Le associazioni e i movimenti laicali si sono ritrovati per una dichiarazione congiunta, mentre una settantina di amministratori locali si sono incontrati con l’idea di fare rete. Questa convocazione si poteva curare ancora meglio, ma esprime la voglia di partecipare e avere un orizzonte comune, com’era capitato a maggio in Campidoglio a Roma quando un centinaio di giovani sindaci e amministratori avevano raccolto l’invito della Fondazione Fratelli tutti per riconoscersi e introdurre nelle politiche locali il principio di fraternità.
Il seme è stato gettato. I delegati sono ripartiti guardando il cielo e tenendo i piedi radicati nella terra per arginare tutto ciò che è inferno e offende la dignità della persona.
[Photo Credits: Festival della Dignità Umana]