Da Gaza alla Cisgiordania: altro fronte, stessa guerra
Vasta operazione dell’esercito israeliano a Jenin. E ora, con Trump alla Casa Bianca, l’estrema destra israeliana sogna l’annessione della Cisgiordania. Questo il focus di Alessia De Luca per l'ISPI.
Le armi, che tacciono a Gaza, sparano da ore a Jenin in Cisgiordania. È di almeno 12 morti e una quarantina di feriti il bilancio provvisorio della vasta operazione militare che le forze armate israeliane hanno lanciato contro la città, che ospita il più grande campo profughi della Cisgiordania. Il governatore Kamal Abu al-Rubm ha definito l’operazione “una vera e propria invasione” riferendo di “elicotteri Apache che sorvolano la città e veicoli militari israeliani ovunque”. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha spiegato che l’offensiva “Muro di ferro” mira a “sradicare il terrorismo” e costituisce “un altro passo per rafforzare la sicurezza in Giudea e Samaria” ma agli occhi di molti appare una concessione all’ultradestra per aver digerito, almeno per il momento, il cessate il fuoco a Gaza. Con l’entrata in vigore della tregua nell’enclave, infatti, il livello dello scontro a ovest del Giordano è destinato ad aumentare. Lunedì, coloni israeliani incappucciati hanno assaltato i villaggi palestinesi di Al-Funduk e Jinsafut, nel nord della Cisgiordania, provocando almeno 21 feriti. È in questo crescendo di violenze che il capo di stato maggiore israeliano Herzi Halevi ha annunciato le proprie dimissioni a partire dal 6 marzo 2025 “in virtù del riconoscimento della mia responsabilità per il fallimento dell’Idf il 7 ottobre e nel momento in cui l’esercito ha registrato risultati significativi ed eccezionali durante l’attuazione dell’accordo per il rilascio dei rapiti”. Poco dopo di lui si è dimesso anche il capo del comando meridionale dell’esercito israeliano, Yaron Finkelman. L’ex ministro Itamar Ben-Gvir, dimessosi dopo la firma dell’accordo con Hamas, ha elogiato la scelta e rilanciato: “Ora – ha detto – mi aspetto la nomina di un nuovo capo di stato maggiore forte e aggressivo, che ci porterà a sconfiggere Hamas”.
Un amico alla Casa Bianca?
L’escalation a Jenin si verifica all’ombra dei rapidi cambiamenti che, a migliaia di chilometri di distanza, interessano gli Stati Uniti, il principale alleato e sostenitore di Israele. Appena insediatosi alla Casa Bianca, Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo con cui ha revocato con effetto immediato le sanzioni contro i coloni coinvolti in attività violente. La misura, una prima assoluta da parte di Washington, era stata approvata dall’amministrazione Biden in un clima di frustrazione crescente per le violenze perpetrate dai coloni israeliani in Cisgiordania e la gestione del conflitto a Gaza da parte del governo di Tel Aviv, in spregio alle pressioni statunitensi. “Revocare le sanzioni ai coloni estremisti li incoraggia a commettere più crimini contro il nostro popolo”, ha affermato il ministero degli Esteri palestinese, mentre il Times of Israel ha sottolineato che la presenza di un leader del movimento dei coloni all’insediamento del presidente Usa “evidenzia con quale rapidità Washington abbia cambiato posizione”. Tra la valanga di ordini esecutivi siglati subito dopo essere entrato in carica, Trump ne ha anche ripristinato uno che gli consentirà di imporre sanzioni economiche contro la Corte Penale Internazionale (CPI). Il provvedimento apre la strada agli Stati Uniti per colpire l’organismo giudiziario e il suo staff, che nei mesi scorsi avevano spiccato mandati di cattura internazionali contro i vertici israeliani per crimini di guerra e contro l’umanità.
Rivendicazioni bibliche?
Tra le decisioni prese dal nuovo presidente eletto ce n’è un’altra che preoccupa i palestinesi e buona parte degli alleati Usa: la scelta di nominare la deputata di New York Elise Stefanik ambasciatrice all’Onu. Interrogata dal senatore del Maryland Chris Van Hollen nell’ambito dell’audizione per la conferma al Senato, infatti, Stefanik ha confermato il suo pieno sostegno alle rivendicazioni israeliane di diritti biblici sull’intera Cisgiordania. Stefanik – la cui posizione minaccia di influenzare gli sforzi diplomatici in Medio Oriente – ha criticato ciò che ha definito “il persistente pregiudizio dell’Onu contro Israele”, osservando il numero sproporzionato di risoluzioni che la prendono di mira. “Gli Stati Uniti devono stare incondizionatamente con Israele all’Onu”, ha affermato. “Come ambasciatrice, lavorerò instancabilmente per contrastare gli attacchi unilaterali contro il nostro alleato più stretto e garantire che le Nazioni Unite rispettino il mandato di promuovere la pace e la sicurezza in modo equo”. Altro elemento chiave della testimonianza di Stefanik è stato il suo impegno a rivedere e riformare l’allocazione dei finanziamenti degli Stati Uniti all’interno delle agenzie internazionali e ha criticato alcune agenzie (soprattutto UNRWA, l’agenzia per i rifugiati palestinesi, che Israele ha posto fuorilegge) per il loro sostegno ad attività che, a suo avviso, “promuovono l’antisemitismo e favoriscono il terrorismo”. Anche Mike Huckabee, nuovo ambasciatore di Trump in Israele, ha riecheggiato sentimenti simili dichiarando che “non esiste una cosa chiamata Cisgiordania”, dopo aver affermato, durante una visita in Israele nel 2017, che “non esiste un’identità palestinese”.
La destra punta alla Cisgiordania?
Nel complesso, le scelte di Washington sembrano confermare le previsioni del Financial Times per cui la nuova amministrazione statunitense “sarà la più filo-israeliana degli ultimi decenni”. Già nel corso del suo primo mandato, Trump aveva definito legittimi gli insediamenti ebraici nella Cisgiordania occupata, riconosciuto le rivendicazioni di Israele sulle alture del Golan siriane e promosso un’iniziativa di pace che attribuiva a Israele la gran parte di Gerusalemme, assegnando ai palestinesi solo un sobborgo povero della città contesa. Oggi il suo ritorno al potere, in un momento di debolezza dei palestinesi, alimenta le aspettative dell’estrema destra israeliana riguardo obiettivi di lunga data, tra cui l’annessione di gran parte della Cisgiordania. Trump si è già preso il merito di aver imposto un fragile cessate il fuoco tra Israele e Hamas, ottenendo la liberazione di tre ostaggi israeliani. Ma alla domanda se ritenesse che il cessate il fuoco potesse reggere, il presidente si è rifiutato di impegnarsi. “Non è la nostra guerra. È la loro guerra” ha detto, mantenendosi altrettanto vago quando gli è stato chiesto del futuro di Gaza, che dopo 15 mesi di bombardamenti a tappeto e almeno 46mila morti necessiterà di decine di miliardi di dollari di aiuti per la ricostruzione. “Gaza è come un enorme sito di demolizione: deve essere ricostruita in modo diverso” ha detto Trump. E tornando per un momento nei panni dell’immobiliarista ha immaginato per l’enclave devastata dalla guerra un futuro da resort di lusso: “È in una posizione fenomenale: sul mare, un clima eccellente, si possono fare cose meravigliose”.
Il commento di Ugo Tramballi, ISPI Senior Advisor
“‘Il 7 ottobre l’Idf sotto il mio comando non ha saputo proteggere i cittadini d’Israele'”. Per questo Herzi Halevi, il capo delle forze armate, si è dimesso. A guidarlo è stata la sua “bussola morale”. Qualcosa che probabilmente Netanyahu non possiede. L’uscita di Halevi in qualche modo svela le ragioni dell’ultima operazione israeliana contro Jenin. La città è il quartier generale di Hamas in Cisgiordania. Ma la ragione principale dell’attacco che potrebbe compromettere la tregua di Gaza e la liberazione degli ostaggi israeliani, è la necessità di Netanyahu di vivere in una guerra permanente: ne va della sua sopravvivenza politica. Andandosene, Halevi ha implicitamente ricordato che il principale responsabile del disastro del 7 ottobre, è il premier. In assenza di guerra Israele gliene chiederebbe conto. Anche i giudici lo chiamerebbero a rispondere dei reati di corruzione e abuso di potere dei quali è accusato”.
[Fonte e Foto: ISPI]