Israele: respinta la riforma della Giustizia

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L’Alta corte israeliana boccia la contestata riforma della Giustizia, una decisione che potrebbe riaccendere una crisi istituzionale, indebolendo un esecutivo già in grave difficoltà. Ecco il resoconto dell’ISPI, Istituto per gli Studi sulla Politica internazionale.

Con una maggioranza minima di 8 giudici su 15, la Corte Suprema israeliana ha bocciato una parte centrale della controversa riforma della giustizia approvata a luglio dal governo di estrema destra guidato da Benjamin Netanyahu. La bocciatura riguarda la modifica relativa alla “clausola di ragionevolezza” che avrebbe limitato il potere della Corte di annullare le decisioni del governo se ritenute irragionevoli. Il Likud, il partito del premier Netanyahu, ha detto che la decisione si oppone “al desiderio di unità della nazione”, ed è tanto più grave “specialmente in tempo di guerra”. Nei mesi passati, il progetto di riforma aveva causato grandi proteste di piazza e mobilitazioni, perché ritenuto da gran parte dell’opinione pubblica, una minaccia per la democrazia israeliana: attivisti ed esperti avevano sostenuto che in assenza di una Costituzione rigida, la possibilità per la Corte Suprema di respingere le leggi approvate dal parlamento era indispensabile per preservare la governance democratica e i diritti umani. Ma ora la sentenza rischia di provocare una crisi costituzionale e politica mentre il paese affronta lo spettro di un’escalation regionale del conflitto, in corso da quasi tre mesi. La decisione dei giudici rischia infatti di riaccendere le tensioni che agitano il governo di unità nazionale creato all’indomani degli attacchi di Hamas del 7 ottobre scorso.

Due crisi collegate?

La bocciatura della riforma della giustizia rischia di avere dirette ripercussioni anche sul fronte della sicurezza interna. Dal suo annuncio all’inizio di gennaio 2023, infatti, il progetto del governo era stato oggetto di uno dei più grandi movimenti di protesta che Israele abbia mai conosciuto dalla sua creazione nel 1948. Migliaia di riservisti, inclusi piloti dell’aviazione e membri delle unità di intelligence, cybersicurezza e operazioni speciali delle forze armate (IDF), avevano smesso di fare rapporto e si erano sospesi dal servizio, in un vero e proprio boicottaggio nei confronti dell’esecutivo israeliano. Nelle settimane precedenti l’approvazione della legge, i servizi di intelligence avevano avvertito più volte Netanyahu che la crisi interna legata alla revisione giudiziaria rischiava di indebolire la deterrenza di Israele, incoraggiando i suoi nemici ad attaccare lo Stato ebraico. Dopo l’assalto di Hamas del 7 ottobre, perciò in molti hanno sostenuto che la riforma giudiziaria avrebbe provocato una distrazione tale negli apparati di sicurezza da contribuire in modo determinante al clamoroso fallimento dell’intelligence e della difesa.

Un conflitto lungo?

Intanto Israele ha annunciato che ritirerà dalla Striscia di Gaza alcune migliaia di soldati per passare a operazioni più mirate contro Hamas e ridurrà anche il numero di riservisti mobilitati per sostenere l’economia in affanno. Secondo la radio militare israeliana, dall’enclave saranno ritirate cinque brigate, ma il premier Netanyahu ha avvertito che “la guerra continuerà per molti mesi”. Il ridispiegamento delle truppe – il primo finora dall’inizio del conflitto – riguarderebbe il settore nord della Striscia, dove ormai il controllo delle IDF sembra essere completo, visto anche il ridotto numero di lanci di razzi. Nelle zone centrali e meridionali – intorno a Khan Younis – dove si combatte ancora e dove gli scontri a fuoco con i miliziani di Hamas procedono, l’esercito israeliano intenderebbe invece mantenere ancora la massima potenza di fuoco. Secondo la stampa internazionale, la decisione di Israele di smobilitare una seppur piccola parte degli effettivi sarebbe una risposta alle pressioni dell’alleato statunitense e coinciderebbe con l’apertura di una nuova fase della guerra, che secondo fonti militari potrebbe durare almeno altri sei mesi. La campagna israeliana è succeduta all’assalto condotto da Hamas in Israele il 7 ottobre, durante il quale, secondo le autorità israeliane, circa 1200 persone sono state uccise e più di 240 prese in ostaggio.

Hamas guadagna consensi?

Da allora, la crisi umanitaria e la distruzione causate nella Striscia di Gaza dalla guerra non hanno precedenti: secondo le autorità sanitarie, circa il 70% dei quasi 22mila morti registrati finora nel territorio palestinese erano donne e bambini. Un massacro che ha indignato gran parte della comunità internazionale e per il quale il governo del Sudafrica si è rivolto alla Corte penale di giustizia dell’Aia (Cpi), accusando Israele di “genocidio”. Al momento però, ogni speranza che si possa concordare un nuovo cessate il fuoco, per portare aiuti a Gaza e liberare i 129 ostaggi ancora detenuti è frustrata dalla richiesta di Hamas che Israele ritiri tutte le proprie forze dal territorio. Ma mentre la popolazione civile resta preda del conflitto e della fame, cresce la rabbia e lo scetticismo riguardo la possibilità di sradicare l’estremismo armato dall’enclave a colpi di bombardamenti. Se infatti il presidente Mahmoud Abbas ha ribadito che l’Autorità nazionale palestinese (ANP) “resta l’unico pilastro per una soluzione politica del conflitto”, i sondaggi dicono il contrario, mostrando che il sostegno dei palestinesi ad Hamas non ha fatto che aumentare dall’inizio del conflitto. In seguito ai numerosi raid israeliani in Cisgiordania nelle ultime settimane, il gruppo armato palestinese ha visto aumentare i suoi sostenitori anche in un territorio finora guidato dall’ANP. E quando all’inizio di questa settimana il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu aveva promesso di “impedire ad Abbas di prendere il controllo di Gaza dopo la guerra”, di fatto stava ripetendo ciò che anche l’opinione pubblica palestinese pensa: l’attuale leader di Fatah non rappresenta più in alcun modo il futuro dei palestinesi.

Il commento. Di Mattia Serra, Research Assistant ISPI MENA Centre

“Sembra passata un’era geologica da quando il ministro della Giustizia Yariv Levin ha presentato la discussa riforma del sistema giudiziario che tanto ha fatto per dividere la società israeliana. Eppure, era esattamente un anno fa. Ieri sera sono bastati alla Corte Suprema otto voti per respingere una delle componenti fondamentali di quella riforma: la legge che aboliva lo standard di ragionevolezza. Lo sviluppo più significativo della seduta di ieri è però il voto che ha sancito il diritto della Corte a respingere anche le Leggi di Base, una decisione che cambia ulteriormente gli equilibri istituzionali del paese. A un anno di distanza, la Corte sembra quindi uscire rafforzata dalla crociata del governo Netanyahu. Ma è probabile che la notizia passi in sordina.  Le preoccupazioni sono ora infatti rivolte altrove. La guerra continua, così come quella devastazione che negli ultimi tre mesi ha stravolto Gaza e la sua popolazione”.

(Fonte: ISPI; Foto: Shalom.it)