Padre Rif'at Badr, "Amman solidale con Gaza, ma non può più accogliere i profughi palestinesi"

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Il sacerdote del Patriarcato latino di Gerusalemme, fondatore del sito di informazione cattolica abouna.org, ha ribadito le posizione della monarchia giordana: "I palestinesi hanno diritto a un loro Stato". Dopo l'esplosione dell'ospedale al-Ahli di Gaza i manifestanti sono scesi in piazza. Per il religioso giordano la risoluzione del conflitto può passare solo dai negoziati. Ne parla Alessandra De Poli su AsiaNews.

Anche nella capitale della Giordania da due giorni si stanno tenendo proteste in sostegno della popolazione palestinese in seguito all’esplosione dell’ospedale di al-Ahli al-Arabi gestito dalla Chiesa anglicana, nel quale sono morte centinaia di persone che si erano rifugiate nell’edificio per proteggersi dagli attacchi israeliani. Nonostante le analisi preliminari di dati e immagini a libero accesso sembrino confermare la versione israeliana secondo cui sarebbe stato il malfunzionamento di un razzo del Jihad islamico ad aver colpito l’ospedale, le accuse di Hamas contro lo Stato ebraico hanno fatto il giro del mondo, rischiando di allargare il conflitto al Libano e all’Iran e infiammando le piazze, dove i cittadini dei Paesi arabi si sono schierati anche contro i propri governi per il mancato sostegno alla Palestina. 

Ad Amman ci sono stati disordini, ma che sono stati “ben contenuti dalle forze dell’ordine” e “non erano rivolti contro la monarchia giordana”, ha sottolineato p. Rif’at Badr, sacerdote del Patriarcato latino di Gerusalemme presso la parrocchia di Tla’ Al Ali e fondatore di abouna.org, sito di informazione cattolica in lingua inglese e araba: “Le manifestazioni si sono svolte per i palestinesi, non contro lo Stato giordano, e la polizia era presente per garantire il libero diritto di manifestazione”, ha precisato il religioso ad AsiaNews. Anche oggi le strade che portano alle ambasciate israeliana e statunitense sono state chiuse per evitare che la situazione degeneri. 

“In Giordania molti cittadini sono di origine palestinese e non c’è alcun tipo di discriminazione nei loro confronti. Anche noi in quanto sacerdoti proviamo un amore speciale per ogni luogo e ogni pietra della Terra Santa perché la maggior parte dei religiosi del Patriarcato latino di Gerusalemme ha studiato a Beit Jala”, una parrocchia poco a nord di Betlemme dove la popolazione è in maggioranza cristiana, ha raccontato il sacerdote. “Ma proviamo anche una grande preoccupazione per la causa palestinese, perché abbiamo visto tanti anni di sofferenze e i nodi principali della questione restano irrisolti”, ha precisato p. Rif’at. “Si tratta di pochi punti essenziali: l’occupazione di Gerusalemme, gli insediamenti in Cisgiordania, la condivisione dell’acqua, il ritorno dei rifugiati, la presenza del muro nei Territori occupati e lo stabilimento delle frontiere. Toccare solo uno di questi punti provoca grandi complicazioni politiche”. Eppure un’eventuale risoluzione del conflitto non potrebbe ignorare nessuna di queste questioni. 

Proprio a causa delle relazioni di affetto che legano i giordani alla Palestina, “le vittime dell’esplosione dell’ospedale per noi sono ‘martiri’”, ha continuato p. Rif’at. “I cristiani a Gaza sono pochi ma ben inseriti nella società. Sono al servizio del popolo grazie alla presenza di diverse chiese e ospedali. Ma le condizioni in cui hanno vissuto finora sono disumane”. Nelle ultime settimane i bombardamenti su Gaza hanno ucciso più di 3mila palestinesi, che hanno un urgente bisogno di aiuti umanitari, in particolare cibo e acqua. 

Dopo la notizia dell’attacco all’ospedale, il presidente Biden che si trovava in Israele ha annullato l’incontro con il re Abdullah II, il quale è invece oggi atterrato al Cairo per discutere con il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi “le modalità con cui fermare l’aggressione israeliana a Gaza”, secondo quanto affermato da un comunicato della Corte reale.

Il Regno hashemita, nonostante i forti legami con la Terra Santa, non è però disposto ad accogliere i profughi palestinesi come in passato: “In Giordania ci sono rifugiati di 35 nazionalità diverse. In anni recenti abbiamo accettato i rifugiati dalla Siria e dall’Iraq perché grazie a Dio la nostra monarchia è stabile, ma come l’Egitto non vogliamo che i palestinesi si trasferiscano, vogliamo che in futuro abbiano un loro Stato stabile e indipendente”, ha spiegato Abouna Rif’at, ribadendo le parole del governo: “Lo spostamento dei palestinesi è una linea rossa per la Giordania”, ha dichiarato ieri il vice primo ministro e ministro degli Esteri Ayman Safadi, secondo cui il trasferimento forzato della popolazione corrisponde a una violazione del diritto internazionale umanitario.

“La Giordania si è sempre impegnata diplomaticamente per la pace”, ha aggiunto p. Rif’at. Ma rispetto al passato oggi si registra un clima diverso: “Ricordo la violenza della prima Intifada del 1987, a cui però era seguita la conferenza di Madrid nel 1991 e poi gli accordi di Olso nel 1993. Al tempo c’era grande ottimismo, speranza che le cose sarebbero andate migliorando. Oggi, al contrario - sottolinea il sacerdote -, non c’è fiducia nel futuro, non vengono nemmeno affrontati i problemi umani essenziali. Preghiamo affinché le cose cambino e arrivino tempi migliori, anche se è difficile, perché l’elevato livello di violenza di cui siamo testimoni offusca i sentimenti di speranza”. Ma un altro elemento è venuto a mancare negli ultimi tre decenni: la diplomazia. “Dalla firma degli accordi di Oslo non ci sono più stati negoziati. Dovrebbe esserci un dicastero dell’Autorità nazionale palestinese dedicato solo a questo ma non è occupato da nessuno oggi. Non è stato più messo nulla sul tavolo dei negoziati. Mi viene da chiedermi: chi ha portato via i tavoli per il dialogo?”.

(Fonte: AsiaNews - Alessandra De Poli; Foto: Latin Patriarchate of Jerusalem)