Premio Niwano a Mohammed Abu-Nimer, palestinese per la pace e il dialogo tra le fedi

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Assegnata l'edizione 2024 del "Nobel per le religioni": musulmano sufi, docente alla American University di Washington, si è distinto per il “contributo olistico alla causa della pace”. Un impegno rilanciato negli ultimi mesi, dopo l’attacco di Hamas che ha scatenato la guerra di Israele a Gaza. I leader religiosi non devono farsi trascinare nella “polarizzazione” del conflitto, ma mantenere un “ruolo profetico” per garantire giustizia. Ne riferisce Dario Salvi su AsiaNews.

Una vita spesa per la pace e per il dialogo interreligioso, tanto da studioso quanto da persona attiva e impegnata sul campo, dimostrando impegno e dedizione alla propria missione dalla giovinezza sino ad oggi. Per questo la Fondazione Niwano, in occasione della quarantunesima edizione del premio per la pace, ha assegnato l’ambito riconoscimento al professor Mohammed Abu-Nimer, americano di origini palestinesi che si è distinto per il “contributo olistico alla causa della pace”. La consegna è in programma il prossimo 14 maggio a Tokyo, in Giappone, ma la scelta testimonia l’importanza dell’impegno per il dialogo e la riconciliazione in un’area come la Terra Santa ancora oggi teatro di scontri e violenze di natura confessionale, politica e sociale. Divisioni che si sono inasprite ancor più dopo l’attacco terrorista di Hamas del 7 ottobre scorso al cuore di Israele, che ha causato oltre 1200 morti, cui lo Stato ebraico ha risposto scatenando una sanguinosa guerra nella Striscia di Gaza: in meno di cinque mesi il conflitto ha provocato quasi 30mila vitti, in larga maggioranza civili, in particolare donne e bambini.

Islam, perdono e riconciliazione

Nella motivazione, i promotori sottolineano l’opera di “educazione” promossa in questi anni da Abu-Nimer, nel tentativo di risolvere i conflitti e favorire attività volte alla “costruzione della pace” attraverso la “profonda comprensione del perdono e della riconciliazione nell’islam”. Un contributo che non è solo teoretico, ma che viene applicato “con efficacia nella pratica” e che riveste maggior significato oggi “alla luce del conflitto in corso” nella sue terre di origine, in Israele e Palestina, dove si sta consumando “una delle guerre più devastanti”. Ecco perché, aggiungono non vi è “destinatario più appropriato e tempestivo per il Niwano Peace Prize di quest’anno”. Musulmano sufi di origine palestinese, impegnato nel dialogo fra ebrei e musulmani, egli è docente alla American University di Washington (Usa); negli anni ha fondato il Salam Institute, con sede nella capitale degli Stati Uniti, in prima linea nella ricerca, educazione e pratica di questioni relative a conflitti, non violenza, diritti umani e sviluppo. Nella sua opera il centro pone particolare attenzione alle “differenze” fra comunità islamiche e non, avviando progetti che abbracciano culture e fedi diverse in una prospettiva di costruzione della pace, sviluppo sostenibile e progresso in particolare nelle nazioni a maggioranza musulmana.

Originario di un villaggio del nord della Galilea, nei pressi della regione di Tiberiade, abitato da musulmani, cristiani e drusi, egli è autore fra gli altri del primo libro sulla “non violenza”, un tema a lui assai caro, nell’islam e tradotto in cinque lingue. Sin da giovanissimo egli è stato testimone dei conflitti confessionali e politici che hanno insanguinato la Terra Santa e che continuano irrisolti ai giorni nostri; ancora ventenne ha preso parte a un corso di formazione sul dialogo che ne ha segnato il percorso futuro di vita e professionale, impegnandosi in prima persona nell’incontro e confronto - oltre lo scontro - fra musulmani ed ebrei, fra israeliani e palestinesi ponendo particolare attenzione proprio alle zone di maggiore conflitto e tensione. Dagli anni ‘90 ha approfondito le criticità fra cattolici e protestanti in Irlanda del Nord, i rapporti fra buddisti e indù in Sri Lanka, le relazione islamo-cristiane a Mindanao (nel sud delle Filippine), nei Balcani e in diversi Paesi dell’Africa. Ed è stato anche fra i primi a organizzare progetti in materia in Arabia Saudita e lavorando in diversi Paesi della regione araba, dall’Iraq alla Siria, dal Libano alla Giordania.

“Nobel delle religioni”

Il premio Niwano commemora la figura di Nikkyo Niwano, fondatore e primo presidente dell’organizzazione buddhista Rissho Kosei-kai, ed è universalmente riconosciuto come il “Nobel delle religioni”. Esso vuole onorare e incoraggiare individui e organizzazioni che hanno contribuito in modo significativo alla cooperazione interreligiosa, favorendo in tal modo la causa della pace mondiale e rendendo i loro risultati conosciuti il più ampiamente possibile. La Fondazione spera in tal modo di migliorare la comprensione e la cooperazione fra fedi diverse e incoraggiare l’emergere di ancora più persone dedicate al compito, o alla “missione”, della pace mondiale.

La Niwano Peace Foundation è stata istituita nel 1978 per contribuire alla realizzazione della pace mondiale e alla valorizzazione di una cultura di pace. La Fondazione promuove la ricerca e altre attività basate su uno spirito religioso e serve la causa della pace in campi come l'istruzione, la scienza, la religione e la filosofia. Per evitare una indebita enfasi su una particolare religione o regione, ogni anno l’organizzazione sollecita la nomina di persone di riconosciuta statura intellettuale e religiosa in tutto il mondo. Nel processo di nomina e selezione del vincitore intervengono circa 600 persone e organizzazioni, in rappresentanza di 125 Paesi. La prima edizione, nel 1983, è andata all’arcivescovo cattolico brasiliano Hélder P. Câmara, seguito negli anni fra gli altri dal  World Muslim Congress (1987), Neve Shalom / Wahat al-Salam (1993), il ven. Maha Ghosananda (1998), Rabbis for Human Rights (2006) e Rajagopal P. V. nel 2023.

Il conflitto a Gaza

Nei giorni scorsi, prima di venire a conoscenza dell’ambito riconoscimento della Fondazione Niwano, il prof. Abu-Nimer aveva pubblicato per AmericaMagazine una lunga riflessione sul conflitto in corso nella Striscia. E fin dal titolo “Interfaith peacemakers cannot remain neutral on Gaza” aveva rilanciato le posizioni che caratterizzano il suo lavoro e invitato tutti a operare per il dialogo e la riconciliazione. Partendo dal numero delle vittime, la maggior parte delle quali donne e bambini, e le decine di migliaia di case distrutte e gli 1,5 milioni di palestinesi sfollati, egli sottolinea come la situazione nell’area sia “ripiombata” alle “fasi iniziali” nel 1948 “riaccendendo un clima di animosità”. Questo è evidente nella “disumanizzazione” dei palestinesi “all’interno del discorso politico israeliano e occidentale”, cui si somma un “preoccupante aumento dell’antisemitismo e dell’islamofobia a livello globale”.

Israeliani e palestinesi non otterranno “una chiara vittoria da questo conflitto” osserva il professore. Al contrario, la guerra “ha inflitto profonde sofferenze a tutte le parti coinvolte, macchiando la reputazione dei governi europei e nordamericani” accusati di “doppia morale e ipocrisia politica”. “La gestione di questo conflitto - prosegue - ha anche minato la credibilità e l’efficacia di istituzioni internazionali e multilaterali come le Nazioni Unite, Unione Europea e Lega araba”. Inoltre, esso ha al tempo stesso “alimentato una polarizzazione globale, con alcuni che sostengono la solidarietà con la causa palestinese e il riconoscimento della loro dignità e libertà, mentre altri sostengono fermamente la campagna militare di Israele contro i cittadini di Gaza e i palestinesi della Cisgiordania”. Da qui l’appello a un rinnovato impegno dei leader religiosi i quali corrono essi stessi il rischio di essere “invischiati in questa polarizzazione, e molti sono stati criticati per la loro percepita incapacità di prendere una chiara posizione morale contro la guerra a Gaza”. “In ogni caso - sottolinea - hanno un ruolo profetico nel sostenere la pace e la giustizia. Nel contesto israelo-palestinese, possono unirsi nel chiedere un cessate il fuoco, compreso un appello interreligioso per fermare tutti gli attacchi contro i civili, in particolare per la tragica perdita di vite umane”. Infine, i leader religiosi “possono chiedere congiuntamente il rilascio degli ostaggi da entrambe le parti” mentre “delegazioni interreligiose possono intraprendere viaggi a Gaza, in Cisgiordania e in Israele, servendo come testimoni imparziali delle realtà sul campo. I leader musulmani, ebrei e cristiani - conclude - possono collaborare per fornire una piattaforma per la cura e la riconciliazione e sostenere tutte le vittime, in particolare donne e bambini, nel loro cammino verso la guarigione.

(Questo articolo è stato pubblicato sul sito di AsiaNews, al quale rimandiamo; Photo Credits: Eastern Mennonite University)