Perché tanti protestano contro la riforma Netanyahu della Corte suprema: è un attacco alla democrazia in Israele?

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Dai primi di gennaio Israele è percorso da forti tensioni interne legate al progetto di riforma della Corte suprema. Imponenti manifestazioni di piazza e scioperi hanno indotto a rinviare di un mese la decisione. Nell’impossibilità di prevedere che cosa avverrà in futuro, un illuminante articolo del teologo Piero Stefani su Il Regno Attualità 8/23 riflette sul perché una così vasta parte dell’opinione pubblica, accanto a esponenti politici, militari e della magistratura, ha visto nella riforma un attacco diretto alla democrazia.

La riforma della giustizia promossa dal nuovo governo di Benjamin Netanyahu prevede l’aumento dei membri politici nel comitato che nomina e destituisce i giudici della Corte suprema. Attualmente sono nove – tre giudici della Corte stessa, due provenienti dall’Associazione forense israeliana, due membri del Parlamento e due del governo – mentre, secondo la progettata riforma, dovrebbero salire a 11, di cui sei espressi dal governo. Tra i nodi più controversi c’è l’innalzamento all’80% dei voti necessari, al posto della maggioranza semplice, per le decisioni della Corte dedicate alla revisione delle leggi, comprese le Leggi fondamentali (Basic Laws). Ma la parte più contestata del progetto è l’introduzione di una clausola che permetterebbe invece al Parlamento (Knesset) di abrogare a maggioranza semplice le sentenze della Corte suprema che modificano o annullano sue leggi.

“Il governo più a destra di tutta la storia israeliana ha deciso di dedicare uno dei suoi primi atti al tentativo di ridimensionare questa istituzione”, scrive Stefani, ricordando che “dopo un periodo d’instabilità politica che ha portato il paese alle urne cinque volte in poco più di tre anni, lasciandolo anche per due privo di un bilancio dello stato, le elezioni del novembre 2022 hanno ricondotto al potere Netanyahu leader del Likud”. Avendo perso per strada tutti gli alleati precedenti, il Likud (32 seggi su 120) è stato costretto ad allearsi con i partiti religiosi. Netanyahu (indebolito da una serie di procedimenti giudiziari a suo carico e vittima, a suo dire, della magistratura e della Corte suprema) ha messo in piedi un governo che comprende il Likud, il Partito sionista religioso, lo Shas e l’Ebraismo unito nella Torah.

“Si tratta di movimenti che comprendono componenti suprematiste ebraiche ostili a ogni concessione ai palestinesi e propense a procedere all’annessione dei territori occupati”, sottolinea Stefani, secondo cui “oltre a motivi politici più immediati, la questione legata alla riforma della Corte suprema ha fatto riesplodere il tema di fondo legato all’identità di Israele come stato ebraico e democratico. L’esistenza del primo fattore comporta inevitabilmente l’esistenza di un ruolo riservato alla componente religiosa”.

In Israele la mancanza di una Costituzione scritta, una delle caratteristiche originali dello stato, produce conseguenze molto percepibili sulle strutture del sistema giuridico. “A più riprese – ricorda Stefani – si è sollevato il problema di quale peso abbia avuto e abbia la religione nel sistema giudiziario. I tribunali religiosi rientrano nel novero delle giurisdizioni specifiche. La loro competenza si limita agli affari relativi allo statuto personale; ciò comporta che sia l’appartenenza religiosa delle parti a determinare le leggi relative ai matrimoni e ai divorzi. Queste forme sono eredità del diritto ottomano che accordava larga autonomia ai gruppi religiosi (i cristiani e i musulmani hanno dei tribunali loro propri le cui decisioni sono riconosciute dallo stato)”.

Nel diritto di famiglia, in particolare, le spettanze dei tribunali religiosi (matrimonio, divorzio) e quelle civili (successioni) determinano una dualità giuridica e numerosi conflitti giurisdizionali che coinvolgono spesso la Corte suprema. “Per corredare gli impedimenti ai matrimoni a causa degli interdetti religiosi, la Corte suprema ha, a poco a poco, sviluppato una giurisprudenza che integra il diritto ebraico”, osserva Stefani. E a complicare ulteriormente le cose, “i tribunali religiosi contestano le competenze su questi ambiti di quelli civili (ivi compreso quello della Corte suprema). Ciò spiega i violenti conflitti che scoppiano periodicamente”. Nell’attuale contesto politico, “l’antica aspirazione dei partiti religiosi a ridimensionare il ruolo della suprema corte laica ha prodotto una convergenza con gli interessi politici e personali di Netanyahu”.

La Corte suprema, composta da 15 giudici e da due cancellieri, istituita nel 1948 (l’anno stesso della fondazione dello stato), è chiamata a conformarsi ai valori peculiari d’Israele nella sua qualità di stato ebraico e democratico. Una disposizione della Corte suprema è vincolante per ogni altro tribunale. Essa svolge due funzioni fondamentali: è la più alta Corte d’appello e funge da Alta corte di giustizia (conosciuta in questo caso con la sigla Bagatz): in questa seconda funzione essa delibera sulla legalità delle scelte compiute delle autorità statali: governo, enti locali, altre istituzioni o persone che svolgono funzioni pubbliche. Nella sua funzione di Bagatz, la Corte esamina, inoltre, la conformità delle delibere parlamentari rispetto ai principi contenuti nelle leggi fondamentali dello stato. Nonché prende in esame ricorsi diretti contro sentenze pronunciate dalla Corte suprema rabbinica o da altre corti religiose.

“Le forti, corali reazioni suscitate dal progetto – osserva ancora Stefani a proposito della riforma proposta dal governo Netanyahu – mettono in discussione qualcosa di più del tema, in ogni caso ovunque cruciale, dell’indipendenza della magistratura. Quanto è in gioco è la natura stessa del carattere ebraico e democratico dello Stato d’Israele”. “Con il passare dei decenni il consapevole compromesso iniziale nazional-religioso, fatto di spinte e controspinte (di cui la Corte suprema era tra i fattori principali), è stato soggetto a un crescente processo di polarizzazione. La contrapposizione religiosi-laici da fattore cultural-politico è diventata sempre più una fonte di contrapposizione all’interno della società e di scollatura istituzionale”, prosegue.

L’inevitabile conseguenza di tutto ciò “è stata una forte ideologizzazione di molte componenti religiose. All’esasperazione di fattori inscritti nel DNA dello stato si sono aggiunte, dopo la Guerra dei sei giorni del 1967, le conseguenze del prolungato controllo dei Territori occupati”. Uno degli effetti è stato “l’irrompere nell’identità israeliana del fattore legato al rapporto con i palestinesi”. La situazione produce inevitabili riflessi sul ruolo attribuito ai cittadini israeliani arabi (circa il 20% della popolazione). Sotto tale profilo, la Basic Law: “Israel as the Nation State of Jewish People” (2018) è quanto mai eloquente. Lo è soprattutto quando afferma, nel 3o comma del suo 1o articolo, che il diritto d’esercitare l’autodeterminazione nazionale nello Stato d’Israele è di esclusiva pertinenza del popolo ebraico.

In conclusione, afferma Stefani, “la crescente presenza di coloni israeliani nei Territori (ormai ammontano a circa un sesto dell’intera popolazione) e il teso, ma ineliminabile, intreccio economico-sociale tra la componente ebraica e quella palestinese consegnano alla pura retorica politica la soluzione dei ‘due popoli in due stati’, mentre mettono sempre più in discussione la natura ebraica e democratica di Israele”.

(Fonte: Il Regno Attualità – Piero Stefani)