Tregua a Gaza: Patton (Custode), “ora una strada politica per la questione palestinese”. Ai pellegrini, “Tornate!”

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La tregua come 'apri-prista' ad una soluzione politica della questione palestinese: è l'auspicio del Custode di Terra Santa, padre Patton, che nei giorni scorsi ha lanciato, con il patriarca latino di Gerusalemme, card. Pizzaballa, un appello ai pellegrini a tornare in Terra Santa. "I pellegrini - afferma - sono uno strumento provvidenziale del quale Dio si serve per aiutare il processo di pace che non è fatto solo dai cosiddetti ‘grandi’ della terra". Ne parla Daniele Rocchi sul Sir.

“Speriamo che la tregua si stabilizzi, si trasformi in un vero e proprio processo di pace, a Gaza e in tutta l’area, e apra la strada ad una soluzione politica della questione palestinese”.

Il Custode di Terra Santa, padre Francesco Patton, osserva speranzoso quanto sta accadendo a Gaza, in Israele e in Cisgiordania, dopo l’entrata in vigore della tregua tra Israele e Hamas, frutto di un accordo mediato da Usa, Egitto e Qatar, che prevede, tra i vari punti, anche il rilascio degli ostaggi israeliani in cambio della liberazione di detenuti palestinesi. Il frate è consapevole che “la fine della guerra non significa la fine del conflitto” ma ribadisce la necessità di “affrontare alle radici, in modo serio e credibile, le questioni profonde che stanno all’origine di questo conflitto da troppo tempo”. Concetti già espressi, il 16 gennaio scorso, dalla Assemblea degli Ordinari cattolici di Terra Santa, di cui fa parte insieme al presidente, il patriarca latino di Gerusalemme, card. Pierbattista Pizzaballa.

Padre Patton, come ha accolto le immagini della liberazione dei primi ostaggi israeliani e dei detenuti palestinesi?
Vedere ostaggi israeliani e detenuti palestinesi, tra loro donne e bambini, tornare a casa fa davvero piacere. Ho visto in quelle immagini quasi un compimento di uno dei ‘segni’ del Giubileo, la scarcerazione dei prigionieri. Certamente un segno ‘inconsapevole’ messo in atto dai due contendenti. Vorrei che Dio Padre mettesse dentro il cuore e la mente di chi ha responsabilità politiche, da una parte e dall’altra, molti altri segni giubilari inconsapevoli, soprattutto una qualche forma di disponibilità alla ricostruzione e alla riconciliazione.

Uno dei segni giubilari era anche la restituzione delle terre. Che si imparasse a riconoscere che la terra è di Dio che la dona ai suoi figli e figli lo sono sia gli israeliani che i palestinesi. Impariamo ad essere custodi di una terra che appartiene a Dio e che Dio ci mette a disposizione per costruire fraternità.

Non mi pare che i responsabili politici da lei poc’anzi richiamati stiano mostrando una volontà seria di pace, è d’accordo?
Non riscontro nelle componenti politiche di ambedue le parti lo stesso desiderio di pace che noto in tanta gente di qui. Però, vedo anche che chi governa sa bene che la pressione ‘esterna’ spinge verso il negoziato di pace. In questo momento sia il governo israeliano sia i capi di Hamas sentono la pressione di Usa, Ue e Paesi del Golfo per andare in questa direzione. Spero che questa pressione si mantenga inalterata e che i tempi lunghi di queste tre tappe previste dall’accordo aiutino ad elaborare un piano per il futuro dell’area che, al momento appare ancora molto vago. Sarà importante scardinare ogni tentativo di sabotaggio della pace operato dalle frange più estremiste dei rispettivi schieramenti. Siamo davanti ad un’occasione storica anche se molto più fragile di altre simili che abbiamo avuto in passato, come per esempio gli accordi di Oslo. Storica anche alla luce della percezione che potrebbe essere l’ultima opportunità per arrivare alla pace.

Il secondo mandato presidenziale di Trump, appena iniziato, potrebbe favorire questo processo?
L’ingresso di Trump alla Casa Bianca potrebbe favorire il mantenimento della tregua, la soluzione politica del conflitto e la ripartenza degli accordi di Abramo. Per finalizzare gli accordi di Abramo occorre che ci sia pace tra Israele e Arabia Saudita, Paese che ha sempre posto come condizione il riconoscimento, da parte israeliana, della Palestina in una forma statuale. Allo stesso modo i palestinesi devono riconoscere il diritto all’esistenza di Israele. Le lancette della storia non si possono riportare indietro.

In questa fase da lei definita ‘storica’ che ruolo possono avere i cristiani?
Io penso che i cristiani, per quanto minoranza, possono giocare un ruolo importante nella costruzione della pace in tutta l’area. Ma allo stesso tempo credo che ci sia bisogno anche di una lettura teologica della storia secondo la quale Dio continua ad agire per evitare che il male non prevalga su un principio di vita nuova. I cristiani qui hanno sempre resistito in una condizione di minoranza tranne che per un breve periodo storico, quello che va dal IV al VII secolo dopo Cristo. I cristiani hanno vissuto sin dall’inizio in questa terra, hanno patito persecuzioni e discriminazioni, maturando una grande resilienza. Siamo un piccolo gregge significativo la cui risorsa più grande è l’unità. Qui siamo in un luogo dove si tocca con mano l’unità della Chiesa. La sofferenza e il martirio ci hanno unito sempre di più. La scommessa è che siano uniti anche i capi delle Chiese, che non siano ambiziosi o per dirla con Papa Francesco, ‘mondani’.

Lo scorso 20 gennaio, con il patriarca latino, il card. Pierbattista Pizzaballa, avete lanciato un appello congiunto ai pellegrini a tornare in Terra Santa. La tregua a Gaza può favorire la ripartenza dei pellegrinaggi?
È il momento di tornare: siamo nell’Anno del Giubileo e già adesso ci sono le condizioni per venire in pellegrinaggio in Terra Santa in modo tranquillo. Papa Francesco ha indicato il Santo Sepolcro a Gerusalemme, l’Annunciazione a Nazaret e la Natività a Betlemme come santuari giubilari per tutta la Chiesa universale. I luoghi di pellegrinaggio sono tutti accessibili, sia quelli in Israele che in Palestina, come Betlemme, Gerico ed altri. Stanno riprendendo anche i voli e le rotte sono sicure. È importante che i cristiani tornino e tornino prima di Pasqua per dare un segno di vicinanza alla Chiesa e ai cristiani locali. Il pellegrinaggio fa sentire meno soli i cristiani locali che sempre più spesso sono tentati ad emigrare in cerca di condizioni di vita migliori. Alla vista dei pellegrini nei cristiani di qui sale la sensazione di sentirsi parte di una grande famiglia. E questo è estremamente consolante.

Ci sono anche positivi riscontri economici, da non sottovalutare in un momento come quello dopo il 7 ottobre 2023, quando tutto si è fermato…
Quando ci sono i pellegrini c’è lavoro per i cristiani locali, molti dei quali lavorano nel comparto del turismo religioso. Ma c’è un altro aspetto che mi preme segnalare soprattutto ora…

Quale?
Tanti più sono i pellegrini tanto più la realtà politica locale sente la pressione nel prendere la direzione della pace. Più volte durante incontri con le istituzioni turistiche israeliane ho fatto presente l’importanza di rendere accessibili i luoghi santi in Israele e in Palestina. Attraverso i pellegrini si crea anche quel minimo di relazione, di ponte tra mondo israeliano e palestinese. I pellegrini sono uno strumento provvidenziale del quale Dio si serve per aiutare il processo di pace che non è fatto solo dai cosiddetti ‘grandi’ della terra.

[Fonte: Sir; Foto: Comunità di Connessioni]